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Descrizione

Un travagliato Seicento
Per venire incontro alla necessità dell’accresciuta popolazione, nell’ultimo quarto del XVI secolo la chiesa abbaziale venne profondamente rimaneggiata rispetto alle sue forme originali e notevolmente ampliata. Si eliminò il porticato antistante, trasferendo all’interno della chiesa, nella seconda cappella di destra, le presunte spoglie di Aleramo. I lavori vennero compiuti quand’era abate commendatario il nobile Stefano Rolla dei consignori di Sala e la traslazione dei resti del marchese è ricordata da un’iscrizione datata alle idi di ottobre del 1581. Sulla tomba venne posto un frammento di mosaico bicromo di argomento fantastico-mitologico che la maggior parte degli studi studi attestano risalire all’XI-XII secolo, sebbene altri lo retrodatino all’epoca imperiale romana.
Agli inizi del secolo Grazzano conta 989 anime (bocche) suddivise in 205 famiglie (fuochi) e la sua milizia locale è composta di 130 uomini. La prima metà del Seicento lo vede, come tutto il Monferrato, coinvolto suo malgrado nelle lunghe e devastanti guerre per la successione al Ducato di Mantova. Catastrofica fu l’epidemia di peste scoppiata negli anni 1628-1630: non essendo più sufficienti le sepolture comuni in chiesa, com’era d’abitudine, i grazzanesi furono autorizzati a inumare i cadaveri direttamente nelle loro proprietà. Secondo la leggenda, molte sepolture furono fatte presso la chiesa campestre di San Martino.
Gravosissimo fu anche il tributo che Grazzano, al pari delle altre comunità, dovette pagare in termini di alloggiamenti, vettovaglie e taglie straordinarie verso gli eserciti che periodicamente ne attraversavano il territorio. La pazienza della popolazione venne messa a così dura prova che nel 1625 si premiò con dieci scudi un tale che aveva dato un’indicazione sbagliata al duca di Ferry, non facendolo passare con la sua soldataglia per Grazzano, bensì per la valle delle Peschiere. L’episodio più drammatico accadde però nella primavera 1642, quando il governatore di Pontestura, il portoghese Gregorio Britto, che aveva imposto tributi anche all’abbazia di Grazzano tradizionalmente immune, aveva inviato in paese un contingente di soldati per esigere una taglia straordinaria.
Poiché i grazzanesi, ridotti allo stremo da una guerra devastante, non volevano pagare e anzi uccisero alcuni militari, rimandando indietro a mani vuote gli altri, il governatore «giurò vendetta e tosto che fu fatto governatore di Trino, la pose in esecuzione». Con un contingente di 400 fanti e 300 cavalli si diresse alla volta di Grazzano. Qui «gli abitanti che vegliavano, furono alle armi. Ma riconosciuta quindi la superiorità delle forze nemiche e la loro debolezza, e quella del luogo, presero il più sicuro partito di rifuggirsi nei boschi. Colà arrivato il Britto, lo trovò vuoto di abitanti; e deluso nella sua aspettativa, fece mettere il fuoco a moltissime case». Poi l’orrido personaggio si rivolse verso Casorzo, dove, non trovando uomini validi in paese, appiccò il fuoco al campanile della parrocchiale, nel quale avevano trovato rifugio vecchi, donne e bambini, facendone orribile strage. Pare, tra l’altro, che la spedizione punitiva fosse stata guidata dalle indicazioni di un tale Giovanni Battista Berruto, trinese ma sposato a Grazzano, che condusse le truppe in Vallescura: di qui la fanteria si portò a Grazzano, la cavalleria proseguì per Casorzo.
Pochi anni dopo, nel luglio 1647, il paese scampò dalle incursioni del commissario generale spagnolo don Diego Salavedia, le cui soldataglie si accontentarono di razziare tutto il bestiame trovato; un’altra scorribanda con seguito di ruberie generalizzate e violazione dell’abbazia fu compiuta il 27 giugno 1653, questa volta a opera di francesi e savoiardi.
Il secolo XVII, nonostante le guerre, le carestie e le condizioni economiche disastrose, fu l’epoca del massimo impegno dei grazzanesi per difendere e migliorare i loro sacri templi, esempio significativo di come i precetti della Controriforma si siano innestati sull’albero della fede tradizionale, magari commista di un po’ di superstizione ma tanto sentita nelle nostre popolazioni di un tempo.
La chiesa abbaziale, appena rinnovata, fu affidata al pennello di Guglielmo Caccia, che ne dipinse due tele, mentre per quella della Confraternita dello Spirito Santo il pittore monferrino creò una stupenda quanto misconosciuta Pentecoste. Ogni rione del paese, ogni gruppo di cascine aveva la propria cappella campestre: San Martino, San Salvatore, San Rocco, San Sebastiano, San Pietro, San Bernardo, San Biagio, San Giacomo, Sant’Anna e poi il santuario della Madonna dei Monti, risalente almeno al XII secolo e da sempre causa di furiosi contrasti con gli ottigliesi.
Tra le famiglie emergenti in questi tempi travagliati si segnalano i Della Chiesa, che per matrimonio con una Morra assunsero il doppio cognome Della Chiesa Morra, poi i Plano e i Plebano, entrambi casati signorili della piccola feudalità monferrina, e ancora i Piccinino, i Capretto, i Badoglio e i Redoglia, senza dimenticare i Lusona, tradizionalmente dediti alle arti sanitarie. La fortuna di costoro, tutte enfiteuti dell’abbazia e proprietari in proprio, perdurerà – rafforzandosi – per tutto il secolo successivo.
 

Nel Settecento
Se il Seicento si chiude con le rovinose scorrerie delle truppe imperiali del principe Eugenio di Carignano che non risparmiano neppure Grazzano (il paese, tra l’altro, fu minacciato di incendio se gli amministratori non fossero stati più che puntuali nel pagare il quartiere d’inverno degli alemanni acquartierati presso Moncalvo), il nuovo secolo si apre con una “rivoluzione” politica. Ferdinando Carlo Gonzaga, sconfitto nella guerra tra Austria e Francia, viene deposto per fellonia e il Monferrato è attribuito al duca di Savoia. L’abate commendatario sarebbe stato d’ora in poi uomo di stretta osservanza sabauda. Se ne andava Giovanni Antonio Gonzaga, cui va il merito di avere istituito nella chiesa abbaziale la cappella cosiddetta “dei Gesuiti” adornata da una tela del fr. Andrea Pozzo e il demerito di essersi portato a Mantova l’archivio dell’abbazia, e arrivava Giovanni Giacomo Millo d’Altare, poi cardinale, seguito da Enrichetto Natta d’Alfiano anch’egli cardinale e da Carlo Derossi.
L’abbazia restava potentissima in zona, tanto che l’agente dell’abate, il medico Mario Plebano, poteva permettersi di chiudere le porte del palazzo abbaziale e della chiesa in faccia al vescovo Pietro Secondo Radicati giunto in visita pastorale nel 1725, quasi che l’abbazia aleramica fosse soggetta all’ordinario diocesano e non alla sola Sede Apostolica. Il presule, più uomo d’arme che di chiesa, ordinò di abbattere le porte sprangate e di estrarre tanto grano servisse per le spese della visita. In questo periodo l’abbazia dei Santi Vittore e Corona, retta ancora dal Gonzaga, possedeva in paese un palazzo (la sede dell’abate e del suo vicario), due botteghe, una casa e un mulino a cavalli, due orti o giardini e tre cascine: una di 108 moggia in contrada Sant’Anna, un’altra detta “la Cassinazza” e una terza detta “la Domicella”. Possedeva un’altra cascina in territorio di Penango (la cosiddetta “Badia”, a Santa Maria di Moncalvo) e molti beni sparsi in territorio di Ottiglio, Castellino e Serralunga. All’abate spettava la nomina del curato, al quale corrispondeva un onorario di circa 233 lire, del giudice, del segretario della comunità e degli ufficiali di giustizia. Verso il 1730 tutti i redditi dell’abbazia erano affittati per 3600 lire annue.
Il territorio comunale si estendeva per 2345 moggia, 174 dei quali composti di beni feudali e 157 di beni ecclesiastici immuni. Molti dei 1017 abitanti del paese, per gran parte mezzadri dell’abbazia, faticavano a sopravvivere ed erano costretti ad emigrare stagionalmente nell’Oltrepo per la raccolta del riso e dei cereali. La comunità si trovava fortemente indebitata e riusciva a malapena a fronteggiare i tributi camerali ordinali.
In zona erano numerose le cave di pietra da cantone, che veniva usata come principale materiale da costruzione per le abitazioni locali e in parte esportata nei paesi vicini: particolarmente pregiata era la pietra cavata in regione Cenchio, da cui si estrasse anche il pietrame adoperato per formare il fondo delle strade costruite o rifatte a Grazzano nell’Ottocento, in particolare quella nuova verso Moncalvo.
Un’interessante attività complementare dell’agricoltura, sempre utile per arrotondare i magri bilanci famigliari, era la plasmatura di stoviglie da cucina fatta con una speciale argilla casualmente trovata verso la Vallescura: con il tempo pare che la produzione si sia evoluta, rivolgendosi anche alla produzione di semplici giocattoli che, muniti di un foro, emettevano un fischio (“subiet”). Tale produzione, curiosa e tradizionalmente attribuita ad alcuni contadini di Patro, sarebbe invece sorta in territorio di Grazzano.
Le due opere più significative realizzate nella seconda metà del Settecento sono la casa comunale, ricostruita e ampliata in adiacenza alla chiesa di Santo Spirito, proprio dove si trova tuttora, e il cimitero pubblico. Abolite per decreto del re di Sardegna le tradizionali sepolture sotto il pavimento delle chiese, i grazzanesi scelsero nel 1778 un camposanto poco discosto dall’abitato, in località Ronco Gennaro, e tale cimitero sarebbe rimasto attivo anche dopo il più rigoroso editto di Saint Cloud. Spesa ingente, generatrice di debiti estinti solo dopo molto tempo, comportò la rifusione delle tre campane della parrocchiale, intrapresa anch’essa nel 1778: dieci anni più tardi i grazzanesi dovevano ancora pagare 1600 lire, rimaste inesatte nonostante l’imposizione di una taglia straordinaria sul registro locale e ripetuti solleciti da parte dell’esattore.
Al 1781 risale anche la compilazione del nuovo catasto geometrico particellare, in ottemperanza all’editto di perequazione emanato da Vittorio Amedeo II. Il territorio comunale appariva ora diviso razionalmente in particelle uniformi distinte per proprietario e massa di coltura, dislocate in 69 regioni catastali.
I venti rivoluzionari che soffiavano Oltralpe sul finire del secolo si fecero sentire anche a Grazzano: qui arrivarono varie famiglie savoiarde preoccupate della situazione creatasi in Francia (i Levet e i Blanc, in modo particolare). Grazie all’ospitalità offerta dall’abate Nicolas di Saint Marcel, savoiardo anch’egli, giunse nel 1797 una comunità di monaci del soppresso monastero benedettino trappista di Tamiè: guidati da dom Antoine Gabet, si stabilirono nella chiesa della Madonna dei Monti, officiando il santuario dedicato alla Vergine del Carmelo e coltivando i terreni di sua pertinenza (40 moggia) secondo la regola del Fondatore.


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